Ci sono parole che, presto o tardi, impareremo a conoscere. Una si queste è zoonosi, ossia una qualsiasi malattia infettiva che può essere trasmessa dagli animali all'uomo direttamente o indirettamente. Zyka è un esempio di zoonosi. L'altra parolina che dovremo imparare è “Antibiotico-resistenza”. Dame Sally C. Davies, la donna nominata Chief Medical Officer dal governo britannico che nel 2015, ne parla in termini quasi apocalittici. Per la studiosa, come riporta un post su L'Espresso, l'antibiotico-resistenza rappresenterà una minaccia globale ed economica più penetrante, pervasiva e pericolosa del riscaldamento globale o del terrorismo in senso lato. Ma cos'è? Come si può ben intuire, si tratta del pericolo rappresentato dalla scarsa efficacia degli antibiotici o delle resistenza agli stessi di nuovi ceppi.
Già oggi, a sentire la studiosa, si contano ogni anno 700 mila morti nel mondo, 50 mila solo tra Europa e Stati Uniti. Estrapolando questi dati, alcuni analisti arrivano a ipotizzare, per il 2050, in assenza di adeguate contromisure, quota 10 milioni di vittime, più di quante ne facciano oggi cancro e malattie cardiovascolari messe insieme.
E' o no una emergenza mondiale?
La colpa? «È di tutti noi», dice all’Espresso Davies dal suo quartier generale di Whitehall, da dove sovrintende a tutte le questioni di salute pubblica del Regno Unito: di noi cittadini, noi politici, istituzioni, medici, aziende farmaceutiche. Di chi prescrive antibiotici senza necessità, di chi li assume senza controllo, di chi ne abusa sugli animali da allevamento, di chi non vigila e di chi non decide. E anche di chi non fa ricerca nel settore perché pensa che non sia economicamente conveniente.
Parla l'economista inglese Jim O' Neill, che ha tracciato per il governo britannico la road map per combattere il problema dell'antibiotico-resistenza
La minaccia è tanto incombente che lo scorso 21 settembre sono state persino le Nazioni Unite a occuparsene, nel corso dell’Assemblea Generale. Riuniti a New York, i rappresentanti dei Paesi membri - tra cui l’Italia - hanno riaffermato l’impegno a sviluppare piani di azione per contrastare il fenomeno, impegno già preso nel 2015 con l’approvazione di un documento di azione globale.
Ma l'emergenza non è solo sanitaria. Non se ballano cifre del genere. Il FMI ipotizza che le conseguenze dell'antibiotico-resistenza potrebbero far sembrare la crisi del 2008 un semplice assestamento di mercato, con proiezione di una contrazione del 3,8 per cento annuo in meno al PIL mondiale ipotizzato. E siccome piove sempre sul bagnato, a essere, nel caso, maggiormente penalizzati sarebbero in massima parte i paesi in via di sviluppo, con un rallentamento stimato della crescita intorno al 5 per cento.
L'Italia è uno dei paesi più esposti. La penisola, insieme alla Grecia, è la regione europea con il maggior rischio di resistenza per batteri come Pseudomonas aeruginosa o Klebsiella, insensibile anche alla piperacillina. E nei nostri ospedali si diffondono ceppi resistenti di Escherichia coli, Acinetobacter, e del temibile Staphylococcus aureus. La colpa, ancora una volta, è l'uso smodato e improprio degli antibiotici. L'Italia è il quinto paese in Europa per l'uso di questi farmaci; ancora più grave, spiega Roberto Bertollini, già direttore del Centro europeo dell’Oms, è ciò che accade nella zootecnia, con animali da allevamento sottoposti a un vero fuoco di fila di antibiotici per potenziare la resa ed evitare epidemie.
Le Regioni si muovono, ma in ordine sparso: Toscana, Emilia Romagna e Campania hanno messo in piedi nel 2013 un sistema di monitoraggio delle resistenze attraverso la rete dei laboratori di microbiologia regionali, per avere un quadro epidemiologico del problema. Ma, più spesso, ciascuna corre per sé. «Esistono tante iniziative sul territorio, ma l’Italia si muove sempre in un’ottica emergenziale. E infatti manca un coordinamento nazionale forte su questo tema», conferma Andrea Vannucci, coordinatore dell’Osservatorio Qualità dell’Agenzia Sanitaria Regionale toscana.
L’antibiotico-resistenza è un problema che conosciamo da trent’anni, ma non l’abbiamo preso troppo sul serio, anche perché, oltre al coordinamento, spesso a mancare sono anche i fondi. Anche se qualcosa si sta muovendo sul serio, visto che: «Nel giugno 2015 il ministero ha messo in piedi un gruppo di lavoro che coinvolge diverse istituzioni ed esperti: l’Istituto superiore di sanità, l’Agenzia italiana del farmaco, rappresentanti delle autorità sanitarie regionali e delle società scientifiche», dice Maria Luisa Moro, che dirige l’Agenzia sanitaria e sociale dell’Emilia Romagna ed è tra gli esperti coinvolti.
L’obiettivo è stilare un Piano nazionale, una sorta di linee guida per contrastare a tutti i livelli l’antibiotico-resistenza. «Stiamo lavorando a un documento che però ancora non è stato finalizzato. Ma non è previsto uno stanziamento di risorse. E in assenza di fondi, tutto il piano farà fatica a decollare». Il piano del ministero può proporre interventi specifici, come ad esempio la possibilità di isolare i pazienti infetti. «Ma poi questi vanno attuati: bisogna vedere se gli ospedali avranno le risorse necessarie per riuscirci», aggiunge Annalisa Pantosti dell’Istituto superiore di Sanità.
Poiché i batteri non conoscono frontiere, dall’altra parte della Manica si guarda con un po’ di apprensione a questa immobilità italiana. Di certo le istituzioni britanniche hanno preso molto sul serio il problema, tanto da aver commissionato nel 2014 all’economista Lord Jim O’Neill (vedi intervista a fianco) un rapporto definitivo sul problema, insieme a una roadmap per uscire dall’emergenza. E la reazione del governo non si è fatta attendere: uno stanziamento di 265 milioni di sterline attraverso il Fleming Fund per migliorare i sistemi di sorveglianza internazionale, altri 50 milioni di sterline per implementare un fondo quinquennale per l’innovazione contro le resistenze. L’impegno a ridurre del 50 per cento entro il 2020 le infezioni “gram-negative” sul territorio nazionale, il dimezzamento delle prescrizioni inappropriate, la collaborazione con Cina e India. E così via.
Sul fronte scientifico lavora invece Alison Holmes, a capo di una task force di esperti dell’Imperial College London, di cui fanno parte oltre 100 esperti di diverse facoltà di Medicina, Scienze naturali e Ingegneria, 13 centri di ricerca e sette organizzazioni esterne come partner. Batteriologi, biologi, informatici, esperti di scienze ambientali, farmacologi, tecnici, esperti di sanità pubblica, tutti insieme per costituire un raccordo tra il mondo della politica, quello della scienza e quello della comunicazione, perché il problema dell’antibiotico-resistenza si risolve con uno sguardo a 360 gradi, spiega Holmes all’Espresso. «Si lavora sull’organizzazione interna degli ospedali e sulla tecnologia digitale per migliorare l’aderenza dei pazienti, sull’epidemiologia e sulla clinica, sulla formazione degli infermieri e sulle campagne educative per il grande pubblico. Ognuno ha il suo ruolo in questa battaglia», dice Holmes.
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