Alla fine, gira e rigira, si arriverà alla vendita dei beni pubblici, che vanno intesi non solo come demanio o altro, bensì anche come le quote detenute dallo Stato in Enel, Eni e Finmeccanica, i nostri maggiori player. E nel novero dei beni dello Stato, almeno in parte, vanno aggiunte anche le municipalizzate.
Il punto è, caro Monti, che sia vera vendita e non-svendita, perché non avrebbe senso. Per la verità una operazione del genere, per i patiti del liberismo, vecchio e neo, ha sempre una ragione d’essere in quanto detta teoria predica uno Stato talmente “leggero” da essere quasi vuoto.
Il punto dicevo, è che non avrebbe senso vendere sottocosto, e soprattutto vendere a chi ha un progetto solido e non ad un finanziere qualsiasi che non vede l’ora di arraffare a 20 e vendere a 50 poco dopo.
E chi s’è visto s’è visto, con ovvie ripercussioni sociali, perché le liberalizzazioni, salvo alcuni casi, in Italia non hanno quasi mai portato affatto vera concorrenza, ma solo tagli altrimenti più difficilmente praticabili nella pubblica amministrazione.
Tanto per dire, c’è liberalizzazione nell’energia, ma è altrettanto vero che la bolletta diventa sempre più cara. Una vera liberalizzazione si è avuta nel settore della Telefonia, laddove abbiamo, rispetto a 10 anni fa, prezzi inferiori a fronte di servizi migliori.
Una operazione simile ebbe luogo intorno al 1992, con la Lira sotto attacco e con Tangentopoli che infuriava, lo Stato vendette, qualcuno dice per il biblico piatto di lenticchie, il gruppo Iri, Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed alimentare pubblica, e così via.
Rimango fermamente convinto che il fatto che un privato possa gestire alcune faccende comunali meglio del comune e con minor spesa per il cittadino rappresenti una favola.
Ecco perché dico a Monti che sia vera vendita e che sia fatta a qualcuno che abbia una qualche progettualità e non solo un interesse finanziario alla dismissione di beni dello Stato.
Massimo Bencivenga
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