Smarrimento. Sgomento. E forse qualcos’altro. Sono queste le sensazioni che stanno provando gli italiani in questo momento sul versante politico. Lo scorso weekend c’è stato il lancio di un nome nuovo e l’ennesimo psicodramma. L’uomo nuovo si chiama Silvio Berlusconi, da circa 19 anni è l’uomo solo al comando; dopo aver detto Alfano premier e io ministro economia, deve averci ripensato, perché ha detto che senza di lui non si va da nessuna parte. Magari ritratterà, magari no.
Di sicuro l’ex premier cambia idea ogni settimana perché, prima ancora della candidatura a ministro delle finanze, aveva lanciato l’idea di cancellare tutti i parlamentari, anche quelli che in questi anni l’hanno sostenuto anche quando diceva che gli asini volano, e di presentarsi con una serie di liste civiche del tipo: forza giovani, forza imprenditori, forza ricercatori, forza operai. Chissà se ci sarebbe stata anche forza gnocca?
Il premier è ossessionato da Forza Italia, come dargli torto del resto, e vorrebbe rottamare il Pdl, che non è mai scaldato gli animi, anche perché la P può essere equivocata tra popolo e partito. E poi, Forza Italia era il nome di una bella trasmissione sportiva condotta da Walter Zenga, Roberta Termali e un giovane Fabio Fazio.
Qualora la cosa della candidatura si realizzasse, per Silvio si tratterebbe della sesta tenzone politica. E dire che quando si presentò, lo fece dicendo che lui non era un politico; nessun politico italiano del dopoguerra è stato a capo di un partito con un certo consenso per 20 anni.
Poco dopo il Berlusca I arrivò il professor Prodi, il primo governo dei professori, anche loro sottolinearono che non erano politici, poi successe che il professore, non politico di professione, divenne Presidente della Commissione Europea. Questi non politici alla lunga si rivelano dei politici con una resilienza leggendaria. Anche Mario Monti, di tanto in tanto si smarca dal politico “tradizionale”. Se tutto va bene, sarà Presidente della Repubblica dopo Giorgio Napolitano. Se va malissimo sarà solo senatore a vita.
E poi c’è il Pd, che si trova nella situazione di tirare un calcio di rigore. E il portiere non c’è. Anche in queste situazioni non è detto che si faccia per forza goal, la palla può andar fuori, colpire la traversa o uno dei pali e non entrare. Il marasma che è andato in scena lo scorso fine settimana ha una forza evocativa enorme. C’erano Bersani e Bindi su un palco (i vecchi regnanti) e una folla che chiedeva lumi (il popolo, gli altri), in modo democratico. L’alzata di testa di Fini fu molto più composta, ma gli elettori potrebbe anche dire, a ragione, che la confusione generata da Ignazio Marino, Paola Concia e qualcun altro reca in sé i germi di una democrazia interna sconosciuta in FI/Pdl.
Solo che l’effetto generale è quello di un partito che naviga a vista, una compagine che non sa ancora con chi allearsi, se cercare il centro o andare più a sinistra, e che rischia pertanto di incagliarsi su qualche scoglio.
Ancora una volta aveva visto giusto l’aquila Arturo Parisi, un ingegno sottovalutato, quando, riferendosi alla nascita del Pd, parlò di fusione fredda. Ecco cosa intendeva.
Scontri e guerra di trincea su molti temi, tutti irrisolti da circa cinque anni. L’ala Ds e l’ala Margherita del Pd sono in forte disaccordo su: pacs, matrimoni gay e testamento biologico; ma non è che in fatto di economia e di politica estera vadano d’amore e d’accordo.
Sono d’accordo invece quando si tratta di sbarrare la strada a nuovi virgulti come la Serracchiani o Renzi.
Di sicuro, se si votasse oggi, gli italiani sarebbero smarriti e spauriti dinanzi a questa classe dirigente litigiosa, autoreferenziale e arroccata su feudi e idee che non appartengono più, e da tanto, al resto del paese.
Massimo Bencivenga
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