Manlio Lupinacci lo canzona sul Giornale d’Italia: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare”. De Nicola sembra essere stato l’equivalente repubblicano Di Re Carlo Alberto, quello altresì noto come Re Tentenna.
Eppure un tipo del genere, ben lontano dall’aver una leadership forte, niente affatto assetato di potere personale e di cariche è riuscito ad essere Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente della Camera e Presidente della Corte Costituzionale. Vale a dire che è stato, non contemporaneamente, prima, seconda, terza e quinta carica dello Stato. Una impresa che non è riuscita più a nessun altro.
I teorici del complotto potranno dire che aveva magari aderenze con la massoneria, ma non è così. Semplicemente era un uomo stimato, senza scheletri nell’armadio, benché i detrattori lo ricordano come il Presidente della Camera che rimase muto mentre Mussolini insultava l”aula sorda e grigia”; e che anzi, sempre quel giorno, zittì bruscamente il socialista Modigliani che tentava di protestare. De Nicola votò anche la fiducia al primo governo del Cavalier Benito. Quando per una serie di motivi venne avanzato il suo nome, con buone probabilità di vittoria peraltro, i suoi detrattori cominciarono a sfogliare la margherita: accetterà o non accetterà? Già, perché il penalista napoletano aveva rifiutato per ben quattro volte la presidenza del Consiglio (che infatti non prese mai!), una volta la nomina a senatore, una volta l’elezione a deputato, una volta la poltrona a sindaco di Napoli. Ma perché pensarono proprio a lui? Furono una serie di veti incrociati. Un po’ bisognava dare qualcosina al sud. Perché? Il referendum del 2 giugno del 1946 sancì per un soffio la vittoria della Repubblica sulla Monarchia.
Ma al sud si votò soprattutto per i Savoia. E ancora, le massime cariche dello Stato erano occupate da due settentrionali fieramente repubblicani: il trentino Alcide De Gasperi al governo, il piemontese Giuseppe Saragat alla Costituente. La Dc cerca di lanciare Vittorio Emanuele Orlando, i socialisti per Benedetto Croce. E allora successe che la Dc impallinò Croce: troppo “laico”, il filosofo partenopeo, che comunque declina l’invito “per evitare lo scandalo e il chiasso”. Il Pci bocciò pure Orlando: ha sponsorizzato un po’ troppo i Savoia nella recente campagna referendaria. Fuori due.
Si va oltre. Togliatti pensò ad Arturo Toscanini, poi ripiegò su De Nicola, liberale, che andava bene anche alla Dc. Don Enrico come lo chiamavano venne eletto il 27 giugno, al primo scrutinio, con il 73,7 per cento dei suffragi ottenendo 397 voti su 501. Contrari soltanto i repubblicani, il Partito d’azione e la Concentrazione democratica di Ferruccio Parri, che diede 40 voti a Cipriano Facchinetti (Pri), candidato di bandiera. Anche l’Uomo Qualunque non appoggiò De Nicola, e sostenne la baronessa catanese Ottavia Penna da Caltagirone nata Buscemi, una fiera antifascista, anticomunista e monarchica, candidata apposta, come spiegò Guglielmo Giannini, come “condanna di un mondo politico incancrenito”, (32 voti). Orlando non lo votaronono che in 10. Un po’ poco per un politico navigato. Un monarchico sfegatato scrive sulla scheda “Umberto II di Savoia”. Il giorno decisivo Saragat tenta di contattarlo telefonicamente. Invano. E’ rinchiuso nella casa di Torre del Greco. De Gasperi riesce alfine a parlare con lui. “M’inchino alla volontà popolare”, disse all’Alcide che gli comunicò l’elezione. Neppure un cenno di ringraziamento ai deputati che l’hanno issato alla più alta carica dello Stato. Niente. Un po’ stizzito De Gasperi disse: “Auguri, presidente. Se lei è d’accordo, il 1° luglio alle ore 12 dovrebbe giurare fedeltà alla Repubblica…”. “Presidente provvisorio, prego”, lo troncò scontroso
Il 1° luglio, tanto per non smentirsi, si fece attendere non poco. Faceva un caldo africano, quel giorno, a Roma. Davanti al palazzo di Montecitorio una folla di parlamentari, giornalisti e semplici curiosi aspettava con ansia il suo arrivo. Rintanati nell’atrio per ripararsi dalla canicola opprimente, Saragat, presidente dell’assemblea, Orlando, decano del Parlamento, e il conte Carlo Sforza, ex-presidente della Consulta (l’assemblea che dalla liberazione di Roma ha svolto funzioni di organo non elettivo dei governi del Cln) si asciugavano il sudore e guardano nervosamente l’orologio. “Doveva esser qui a mezzogiorno ed è già la mezza. La Repubblica è già in ritardo”, sghignazzavano i monarchici. Alfine arrivò, insieme a un nipote, dal momento che era scapolo. Fece un breve discorso e stop. Così iniziò tutto. Ma non mancarono le controversie e gli scontri. Ma questa è un’altra storia. Massimo Bencivenga
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